Ecco i finalisti del concorso Biotecjob 2021 della categoria Racconti

Il Concorso #BiotechJob è promosso da Biotecnologi Italiani in collaborazione con il Dipartimento di Biotecnologie e Bioscienze dell’ Università degli Studi di Milano-Bicocca, il Consorzio Italbiotec, Science Draw Graphic, FormazioneNelFarmaceutico, Cereal Docks, Copan Group, OpenZone e con il patrocinio della Conferenza Nazionale Permanente dei Corsi di Studio in Biotecnologie, lo YEBN – Young European Biotech Network e Assobiotec News.Le premiazioni si terranno durante la #EuropeanBiotechWeek.

  • Giuditta Azzurra Labarile – Titolo: Biotecnologi o supereroi?

“Tutti da bambini abbiamo desiderato avere dei super poteri. Di poter volare, diventare invisibili, avere una forza sovraumana, o magari una bacchetta magica per rendere ogni nostro sogno realtà.Io non facevo eccezione. Ero affascinata dalla magia, soprattutto avrei voluto avere i poteri necessari per aiutare gli altri. La persona che mi sarebbe piaciuto aiutare più di tutte era mia nonna, avrei voluto poterla guarire. Era affetta da Alzheimer, una malattia crudele, che si è portata via pian piano pezzi della sua vita e che infine si è presa anche lei, portandomela via per sempre poco prima che intraprendessi il mio percorso universitario.

L’Alzheimer assomiglia un po’ ad un super cattivo: è complesso, impossibile da sconfiggere e incute timore e paura.Il mio modo per esorcizzare questa paura è sempre stato il cercare di capire e apprendere il più profondamente possibile chi era questo mostro, da dove veniva e come si poteva combattere. Intraprendere quindi un percorso in ambito medico-scientifico per me è stata una scelta quasi naturale. Meno lo è stato lo scegliere tra medicina e biotecnologie. Come tanti altri studenti appassionati di genetica e biologia ero immersa proprio in questo dilemma quando lei, mia nonna, è venuta a mancare, lasciandomi ancor più confusa e spaesata davanti a una delle scelte che più cambiano l’esistenza di una persona.Ho sempre desiderato rendermi utile e assistere chi era in difficoltà, ma credo di aver anche sempre saputo che sale operatorie e stanze ospedaliere non erano per me. Alla fine, pensando proprio alla storia di mia nonna, ho scelto di studiare biotecnologie perché mi sono convinta che è la ricerca che ci offre le armi per capire e affrontare qualunque malattia.

Sono i ricercatori che più, per me, si avvicinano a dei veri supereroi. Il loro lavoro non si limita a salvare una vita alla volta, le conoscenze che acquisiscono sono capaci di cambiare la vita di migliaia, milioni, potenzialmente miliardi di persone, tutte assieme. Ecco perché ho pensato che questa facoltà mi avrebbe davvero aiutata a togliere un po’ di quell’oscurità e angoscia che l’Alzheimer porta con sé e, nel farlo, l’avrei fatto per tutti i malati.Ho ancora paura della malattia, però grazie a questo percorso sto acquisendo tutti i mezzi e gli strumenti per conoscere e decifrare questo “nemico”, e, spero, anche per aiutare a combatterlo in prima linea. Certo, i biotecnologi non hanno la bacchetta magica, ma l’ingegneria genetica è quanto di più vicino ad essa abbiamo: la possibilità di conoscere e modificare il DNA per guarire e fare mille altre cose utili. Basti pensare ai vaccini, così d’attualità in questi giorni, gli OGM, le bioplastiche e tutti quei sistemi e processi per ridurre gli scarti, aumentare l’efficienza e la produttività per creare un mondo più sostenibile.Le nostre magie non avvengono in tempi brevi, ma sicuramente il loro effetto dura ben oltre la mezzanotte e cambia la vita alle persone, davvero. Anche se io sono in ritardo per aiutare mia nonna, ho la speranza, nel mio piccolo, di contribuire a questo continuo progresso scientifico e confesso che, per quanto non avrò mai dei veri super poteri come i supereroi dei fumetti, non mi dispiace affatto il “limitarmi” a fare quello che i biotecnologi sanno fare meglio: creare nuove risposte ai nostri bisogni, perché hanno dimostrato che con le loro idee e le loro competenze la realtà può, a volte, superare qualsiasi immaginazione.”

  • Loris Savino – Titolo: Il dottor Biotecnologo. Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare il mio lavoro

Quando mi sono innamorato del mio lavoro era una normalissima giornata di maggio. A dirla tutta, non era neanche questa gran bella giornata. Il cielo tendeva al grigio e la gente per strada volgeva di tanto in tanto uno sguardo trepido al cielo per assicurarsi che la pioggia, con clemenza, avrebbe cominciato a scendere solo dopo che ciascun, povero malcapitato, avesse raggiunto la propria destinazione. Quella mattina mi ero alzato dal letto con una ritrovata energia e si potrebbe dire che quello fosse già di per sé un indizio del fatto che in fondo il mio lavoro non mi dispiacesse poi tanto. In effetti era vero, ma che già l’amassi, ecco, no. D’altra parte, non è che avessi propriamente scelto di diventare un biotecnologo, forse sarebbe più corretto dire che lo avevo scoperto. Quando si è piccoli si sogna di diventare un medico, un astronauta, magari il più bravo al mondo in una certa disciplina sportiva… Nessuno ci pensa a diventare biotecnologo. Così capita che cresci e ti accorgi che Madre Natura non ha voluto omaggiarti della passione e del talento per gli sport, che al fluttuare nello spazio a gravità zero preferisci di gran lunga rimanere con i piedi per terra e che, a dire il vero, neanche la carriera del medico con tutto quel sangue e quella reperibilità ti ispiri poi granché. Invece scopri che ti piacciono tantissime altre cose: la scienza in tutte le sue declinazioni, ma anche la bellezza del restare nel concreto, di creare e di innovare; cerchi la dimensione comunicativa, il confronto con gli altri, ma anche un lavoro che ti lasci spazio per dar voce alle tue idee. Cerchi qualcosa, ma non sai darle subito un nome. Finché a un certo punto qualcuno ti parla di un mondo del tutto nuovo, a tratti misterioso, ma dal suono affasciante. “Biotecnologie”, lo chiamano. Forse hai trovato quello che fa per te o forse si tratta di qualche imbonitore. Non ti resta che provare il tutto per tutto e verificare da te. Succede così, e via lungo una strada che ti porterà da qualche parte -questo è certo-, ma ancora non sai bene dove.

Quando mi sono innamorato del mio lavoro, dicevo, era una normalissima giornata di maggio. Quel che ho omesso, però, è che non si trattava della prima volta. Mi ero già innamorato dei miei lavori, in moltissime occasioni: lavori che avrei potuto scegliere, che certamente avrei iniziato, e che intanto avevo già sperimentato, sia pure all’interno dei confini astratti della mia immaginazione. Vite intangibili, ma che avevo vissuto a pieno, posso garantirvelo; opportunità professionali che la mia immaginazione non si era risparmiata dal presentarmi e che io avevo saputo cogliere: le avevo colte tutte, anche se in vite differenti.Qualche volta avevo anche sognato di scegliere tra le offerte lavorative migliori e di scelte ne ho fatte, senza scegliere mai. Visualizzavo nella mia testa infiniti scenari: sono stato tra le provette nei laboratori, chinato sui microscopi o dietro le cattedre a insegnare. E di tutte queste alternative non me ne dispiaceva nessuna, al punto che sceglierne una sola mi sembrava impossibile. Provavo a tracciare i contorni del biotecnologo che sarei voluto diventare, ma mi perdevo in quell’ampio ventaglio di possibilità che si aprivano di fronte a me.Il campo sanitario aveva sempre esercitato su di me un grande fascino: sviluppare nuove cure o metodi diagnostici precoci per contrastare malattie oggi incurabili avrebbe potuto rappresentare il traguardo della mia vita; anche solo comprendere i meccanismi che portano all’insorgenza di patologie ancora poco note avrebbe costituito un enorme successo, considerato che la conoscenza di una malattia è fondamentale per la sua prevenzione. Insomma, con un lavoro così puoi salvare delle vite, puoi regalare del tempo a tanta gente. È qualcosa di grosso. Ma, ancora una volta, la realtà non fa sconti, potevo giocare una sola carta: per quante vite immaginarie costruivo nella mia testa, sapevo che solo una poteva finire a essere realmente la mia. E, nonostante l’aspetto medico e farmaceutico rappresentasse una prospettiva appetibile, non potevo ignorare il fatto che la mia inclinazione tendeva inevitabilmente verso un aspetto delle biotecnologie che qualche volta viene un po’ lasciato in secondo piano: il campo della sostenibilità e dell’innovazione. In fondo la definizione di biotecnologie parla chiaro: “tecnologie che si servono di organismi viventi per sviluppare prodotti, servizi o processi destinati a migliorare la vita umana”. In un mondo dove si consumano molte più risorse di quante il pianeta sia in grado di rigenerare, in un contesto globale in cui la nostra generazione e quelle che seguiranno saranno chiamate a reinventare completamente il paradigma dell’economia e dello stile di vita quotidiano di ciascuno di noi per far fronte a emergenze ambientali non più trascurabili, sentivo di avere una responsabilità che non potevo ignorare. Io, in qualità di biotecnologo, ho tutte le competenze necessarie per essere parte della soluzione al problema, per “migliorare la vita umana” offrendo un’alternativa sostenibile a tutto ciò che adesso sostenibile ancora non è. D’altra parte, se in natura tutto ha un ruolo, se qualsiasi scarto viene riutilizzato e non esistono rifiuti, come si poteva pensare che una rivoluzione della nostra visione del mondo e dell’economia potesse partire da altri se non proprio dai biotecnologi, che per definizione sfruttano i sistemi naturali per creare nuovi processi e prodotti? Quella mattina mi ero alzato dal letto con una ritrovata energia e si potrebbe dire che questo sia già di per sé un indizio del fatto che in fondo il mio lavoro non mi dispiacesse poi tanto. Ed era proprio così. Quando hai ben in mente un obiettivo accade a volte che tu sia talmente concentrato su di esso da dimenticare durante il percorso il vero motivo per cui tale obiettivo sia così importante per te. Finché, se sei fortunato, quando il traguardo è raggiunto puoi renderti conto di cosa rappresenti per te essere lì in quel momento. Fu allora che lo compresi finalmente, fu in quel momento che mi innamorai del mio lavoro.

Era una normalissima giornata di maggio e il cielo tendeva al grigio; io ero un biotecnologo industriale e con orgoglio potevo dire che in questo avevo trovato tutto quello che cercavo. La realtà aveva imposto una e una sola alternativa? Bene, questa era stata la mia: con la startup che avevo faticosamente messo in piedi stavo raccontando al mondo che un modello di economia diverso da quello del “prendi-produci-getta” era non solo possibile, ma auspicabile. Facevo parte della soluzione e il mondo poteva trarre giovamento da quel che facevo ogni giorno. Di tutte le vite che avevo vissuto nella mia testa, questa suonava come la più giusta di tutte. Ecco, da quel momento ho capito che sarei andato avanti senza rimpianti, senza pensare a come sarebbe potuto essere altrove. Ero dove dovevo essere. Ero chi dovevo essere.

  • Gabriele Schiavi – Titolo: Lo “Chef-urgo” delle cellule

Capita a tutti almeno una volta all’anno una cena o un pranzo con i parenti, ed è lì, in situazioni come quelle che spesso e volentieri escono le domande che ti fanno sudare freddo. Una in particolare colpisce inevitabilmente gli studenti universitari: “Ma tu, in pratica, cosa stai studiando?”. Se la risposta per un iscritto ad economia, giurisprudenza, matematica è banale, non lo è altrettanto per chi studia “Biotecnologie”, soprattutto da spiegare “in pratica”. Già la parola non aiuta, e infatti molto spesso sul volto dell’interlocutore spunta un’espressione di dubbio e anche un po’ di sospetto, seguita, per fortuna, in molti casi da una sana curiosità. Poi però questa curiosità va soddisfatta. Come spiegare quindi ad una persona lecitamente non addentro alla materia, il lavoro di un biotecnologo? All’ennesima domanda uguale, davanti alla sempre difficile risposta, mi è venuta in mente l’idea di usare una similitudine per risultare più chiaro: il biotecnologo è fondamentalmente lo “Chef-urgo” delle cellule, a metà fra uno chef stellato e un chirurgo, la cui attenzione ricade però sullo studio delle cellule.

Ma cosa avranno mai a che fare uno chef e un biotecnologo tra loro?Lo chef “stellato”, ogni giorno, dopo aver indossato il proprio grembiule, entra nella sua amata cucina con lo scopo di creare squisite combinazioni fra gli ingredienti a sua disposizione. Attraverso il sapiente uso di forni, fornelletti, padelle, coltelli e utensili vari, e grazie anche all’aiuto dei suoi collaboratori, lo chef dà così origine a piatti sensazionali che fanno vivere al gusto dei propri clienti un’esperienza incredibile. Quotidianamente il biotecnologo “stellato” (dopotutto, neanche i biotecnologi sono tutti bravi allo stesso modo!), dopo aver indossato il proprio camice, nella medesima maniera accede al suo amato laboratorio. Se l’obiettivo dello chef è di deliziare il palato della clientela, quello del biotecnologo è di rispondere ai bisogni (molto spesso di salute) della popolazione. Lo fa cercando la combinazione di sostanze a sua disposizione che possano interagire nella maniera più efficace con l’ingrediente principale e immancabilmente presente in ogni laboratorio, la cellula. È così che, collaborando con i colleghi e impiegando piastre, bilance, microscopi, pipette e strumenti di ogni tipo, il biotecnologo raggiunge il traguardo della ricerca a cui sta lavorando (spesso grazie anche a tanto tempo e altrettanta pazienza). Il risultato non avrà di certo il sapore di un gustoso piatto da ristorante, ma contribuirà alla fitta rete di ricerche a livello mondiale e ad accrescere il sapere.… ma il biotecnologo non è soltanto uno chef, è anche un chirurgo.

Il chirurgo tutte le mattine sa che dovrà porre la massima attenzione in ogni piccola azione della giornata: prima di entrare in sala operatoria, si preoccupa che il suo camice sia sterile, si lava accuratamente le mani, indossa guanti e mascherina. Inoltre, dall’inizio alla fine dell’intervento, mantiene la lucidità e svolge al meglio il suo compito, poiché anche solo un piccolo errore potrebbe portare a gravi conseguenze.Analogamente il biotecnologo si prepara in modo rigoroso, entra in laboratorio e meticolosamente prepara il materiale necessario al lavoro del giorno, preoccupandosi che tutto sia in ordine e che la postazione di lavoro sia incontaminata. Anche il fine ultimo del biotecnologo è orientato alla salute delle persone, pertanto la mancanza di questi accorgimenti o un minimo errore potrebbe mandare all’aria un lavoro durato settimane, se non mesi, e comportare un danno non indifferente. È quindi fondamentale mantenere anche in questo contesto una concentrazione sempre alta sui passaggi sperimentali da eseguire e avere una precisione chirurgica, soprattutto durante il trattamento delle sue pazienti preferite: le cellule.C’è però anche un altro ingrediente fondamentale che accomuna tutte queste professioni: la passione. Come la passione e la voglia di far star bene le persone danno allo chef e al chirurgo una scarica di adrenalina prima di entrare in cucina o in sala operatoria, il biotecnologo, prima di entrare in laboratorio sente la stessa scarica e, dopo esservi entrato, non vorrebbe mai uscirne.

  • Sofia Zompi – Titolo: R4188

La porta di vetro dello stabulario scatta con un leggero cigolio. Le lampade sfarfallano e la fredda luce al neon ricopre il linoleum sulle pareti. Damiano entra a passo svelto, infila i guanti in lattice e controlla l’ordine del giorno. Invidio molto la sua reattività di prima mattina. Lancio un’occhiata al calendario fissato con lo scotch sopra il bancone.

Lunedì 31 maggio.

La casella è piena di piccole note nella sua sottile scrittura ordinata. Mi sgranchisco sospirando. Sarà una giornata impegnativa. L’orologio segna le 09:10 quando arriva la nuova tirocinante. Indossa rapida il camice di cotone e i copricalzari blu. Si raccoglie i capelli in una ordinata treccia che infila dentro la cuffia trasparente. Storce il naso quando entra e sorrido di nascosto: lunedì è giorno di pulizie. Assieme, lei e Damiano, trascinano trentadue gabbie lucide e un sacco gonfio di truciolo compresso. Solo un anno fa erano quarantuno, merito dei progressi della scienza che lavora incessantemente per ridurre il numero di animali necessari. C’è molto da fare: preparare il fondo e posizionare le casette pulite, rabboccare l’acqua nei beverini e controllare che il mangime non sia invecchiato a contatto con la grata. Il ronzio della cappa aspirante sovrasta i sottili rumori provenienti dalla gabbia 02. Cinque giorni fa sono nati otto cuccioli, nudi, ciechi e poco più grandi di un tappo di Bic. Tra due settimane saranno abbastanza grandi per nutrirsi da soli, ma per adesso meglio non toccarli.

Damiano controlla che la tirocinante faccia tutto con cura prima di aprire l’armadio a destra del lavandino. So cosa sta cercando ancor prima che lo tiri fuori: il diario dei trattamenti. Lo apre alla prima pagina vuota e annota:

“Sperimentazione Giorno 27 – candidato farmaco BGA005 – microcitoma polmonare H69 AR”.

Rapido prepara il bancone con tutto l’occorrente e tre evidenziatori colorati: blu per i veicoli, giallo per il farmaco sperimentale e verde per il controllo. Guai a invertire i colori. È una delle cose che potrebbe mandare all’aria mesi di lavoro.

Etichetta gialla. Comincia sempre dai trattati sperimentali, inizio a pensare che sia quasi un gesto scaramantico. La sperimentazione è iniziata un mese fa e i tumori cominciano a essere visibili già a occhio nudo. Prende le misure con il righello graduato, ripete la valutazione anche due volte se non è convinto. Per queste procedure meglio essere prudenti. Sul diario, sotto ogni codice, segna in modo ordinato:

6,5 x 5,3

6,8 x 6,15

5,9 x 5,65 …

I dati raccolti ci dicono se il tumore sta progredendo e a che velocità. Ci dicono anche e soprattutto se il farmaco sta facendo il suo dovere.

Poi è il momento del trattamento. Damiano è davvero molto abile: con la mano destra impugna la coda mentre con la sinistra sistema il punto dove iniettare il farmaco. Passa quindi alle gabbie etichettate di verde. Con meticolosità ripete il procedimento, essere precisi vuol dire qualità dei risultati, ed è questo il nostro lavoro: garantire che nessun dato venga sprecato. Nessuno vuole tenere un farmaco in [ricerca, N.d.R.] Preclinica per sempre, ma per andare avanti servono risultati e in questo caso sembra proprio che ci siano, nei trattati il tumore sta crescendo meno che nei non-trattati. Poi sarà l’analisi statistica a dirci quanto è robusto questo risultato, non bisogna mai lasciarsi andare a prematuri entusiasmi.

Per ultimi arrivano i veicoli.

19,9 x 18,65

19,4 x 19,1

20,25 x 19,9…

questo è arrivato. Chi è?

R4188.

Damiano a quel punto prepara l’anestesia, la tirocinante disinfetta il tavolo operatorio…

Quando mi risveglio barcollo leggermente sulle zampe, ma recupero in fretta.

Si, sono io R4188.

Damiano sta ancora misurando, per un’ultima volta, il tumore, per poi pesarlo e fotografarlo su di un foglio di carta millimetrata. Sul mio cartellino la tirocinante scrive in stampatello A19. So bene cosa significa A19, Articolo 19, Damiano ha fissato un grosso appunto sulla bacheca degli obiettivi:

“Articolo19. Liberazione e reinserimento degli animali”.

Quelli del Centro di Recupero vengono una volta al mese con il loro furgoncino colorato, sono tipi simpatici. Quando arrivano stringono la mano a Damiano e iniziano a portare fuori dallo stabulario le nostre gabbie. È ora di andare. Guardo l’ingresso dello stabulario farsi piccolo piccolo mentre mi allontano. Damiano mi mancherà, ma so che alla fine riuscirà a portare il nostro farmaco a chi ne ha bisogno. Poco importa se il mio nome non finirà sulla pubblicazione. Dopotutto R4188 non è un nome che brilli per fantasia…

…anzi, credo proprio che lo cambierò…

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